martedì 24 dicembre 2013

Sfortunatamente non abbiamo avuto l’occasione di vedere all’opera il cosiddetto movimento dei forconi, perché nell’empolese la proposta dell’appuntamento del 9 dicembre non è stata recepita a causa, pensiamo noi, di una dipendenza ancora molto marcata verso un’idea “novecentesca” della sinistra e della sua onnipresenza nelle istituzioni locali. Però, leggendo i resoconti di quelle mobilitazioni sui siti di movimento, ci siamo resi conto che i tratti distintivi dei protagonisti delle proteste sono riscontrabili nella nostra quotidianità di lavoratori precari e osservatori curiosi delle dinamiche umane. In certi casi, visitare la tavola calda di una zona industriale durante la pausa pranzo è più istruttivo che seguire una lezione di sociologia alla Sorbonne. Si colgono delle rivelazioni che nessun discorso politico o proposta teorica sono in grado di postulare: saper spiegare perché, nonostante la diffusa concezione di crisi e disoccupazione, gli operai rimasti al lavoro sono costretti a ore di straordinari e sabati obbligatori; perché i figli della classe operaia (che ha ottenuto, e otterrà ancora per qualche anno, la pensione) devono accettare tirocini a 40 ore, pagati dalla regione, sapendo già in partenza di non venir assunti alla scadenza, e di venir mantenuti dalla famiglia, lo stato sociale del terzo millennio; perché, dopo averci assicurato per anni di far parte di un economia globale e strettamente interconnessa, adesso ci sono stati che se la passano bene e altri, oltretutto confinanti fra di loro, che se la passano peggio.
Il becero nazionalismo ostentato in gran parte delle presenze in piazza, oltre a creare una discutibile impressione cromatica, è un emblema di una sconfitta annunciata: storicamente, la bandiera italiana è stata usata come strumento di sottomissione o, al massimo, come accessorio da stadio (la vittoria della coppa del mondo nel 2006 è stata un pericoloso incentivo alla riscoperta delle pezzole tricolori); all’adozione di questo simbolo è legato, magari solo inconsciamente, il desiderio di tornare al passato, quando la classe media garantita si poteva permettere le ferie e l’ultimo status simbol automobilistico. E’ la sola speranza che gli è rimasta e la sola prospettiva che riescono ad immaginarsi.

In generale, queste mobilitazioni possono dirsi fallite, così come è fallito il tentativo delle varie lobby del neo-fascismo di speculare sull’ignoranza e la disperazione. Ciò non toglie che il “furore della rivolta” sta continuando a covare nei bassifondi delle città e nelle province annoiate, nei luoghi del lavoro senza determinazione e nei locali del divertimento forzato come nei campi di concentramento dei migranti; nuove forme di resistenza al potere contro la mafia legalizzata e la repressione poliziesca. Non ci resta che intercettare questi stimoli in previsione di nuove sollevazioni popolari, per non rischiare di rimanere vittime di un’inazione disorganizzata e insoddisfacente.

domenica 15 dicembre 2013

ANTOLOGIA DEL PENSIERO INUTILITARISTA



Solo un bacio ci tapperà la bocca”: questo abbiamo scritto sui muri della nostra città. Una dichiarazione d’intenti nella quale rivendichiamo l’obbedienza ad un unico padrone: il nostro desiderio. Un padrone gentile, discreto, al quale non serve nessun esercito poliziesco per farsi rispettare, non ha bisogno di alcuna disciplina ortodossa o cieca devozione per amplificare il suo ego. La sua forza costruttiva risiede nell’animo di ogni essere umano, si dispiega naturalmente ogni giorno, in ogni vita vissuta cercandone la bellezza, quella fragranza succulenta che si profonde ogniqualvolta compiamo un’azione disinteressata e priva di qualsivoglia utilità economica. Ed è questo il nostro obiettivo, costruire un’epica della nuova Resistenza contro la dittatura dell’utile, ristabilire la centralità delle nostre vite e dei nostri bisogni animali, combattendo costantemente qualsiasi ingerenza utilitaristica che logora il nostro corpo e la nostra mente. Per farlo, abbiamo scelto di esplorare ogni frammento della quotidianità alla spasmodica ricerca della poesia urbana della rivolta e darle una nuova armonia che la faccia risaltare e splendere di luce propria nel mezzo del caos meccanico e multimediale delle nostre città. Abbiamo annotato scrupolosamente ogni scritta sui muri dell’immenso tazebao fornitoci dalla speculazione edilizia, tutte quelle voci-spray che testimoniano come la propaganda spettacolare è tutt’altro che onnisciente e contiene delle falle che l’ironia e il paradosso renderanno sempre più evidenti. Frasi come “i vostri etilometri non fermeranno la nostra sete”, “il degrado mi aggrada”, “basta fatti, vogliamo promesse”, che, come opere d’arte, fanno bella mostra di sé agli angoli delle strade, sono il segno tangibile di un’insofferenza alle regole di questa falsa democrazia, e sono la riprova più audace che il monito “muri puliti, popoli muti” non verrà mai disatteso, e che gli imbianchini crumiri del comune avranno sempre il loro sporco lavoro da compiere. Abbiamo archiviato con maniacalità quasi filatelica ogni volantino, fanzine, cartellone, flyer, che documentasse il lavoro di controinformazione e attività ludica popolare dei movimenti antagonisti e non solo, perché saranno i ricordi più belli che ci porteremo dietro nella nostra esistenza, e che serviranno nei momenti di sconforto per ricordarci che non siamo mai stati soli, che la nostra lotta è orgogliosa e non si vergogna di mostrarlo. Abbiamo riscoperto e imparato a memoria le vecchie canzoni popolari anarchiche, rivoltose melodie che riecheggiavano durante gli scioperi e ai cortei, ai tempi in cui la rivoluzione poteva sembrare imminente. Sono mosse da una commovente sincerità, e cantarle infonde un senso di fiducia e di unità d’intenti: come disse un compagno livornese “Sono come le canzoni di Elvis, non passano mai di moda”. Tutte queste sono le espressioni più geniali e scaltre, le manifestazioni attuali della millenaria ricerca dell’umanità di affrancarsi dal dominio del potere, lo sguardo più puro di chi si muove, suda, lotta, ama, soffre e poi muore senza nessun rimpianto: forse non vedremo mai il sol dell’avvenire, ma ce ne siamo fatti una concezione magnifica, un’immagine che dirige le nostre mosse verso la sua realizzazione.

Per questo ci siamo sentiti autorizzati a contribuire verso la ricerca di questa strada, esponendo quelle che secondo noi sono le coordinate per raggiungerla. Fu in occasione della costruzione di un centro commerciale a Empoli, che scrivemmo il nostro primo volantino. La portata di questi eventi non viene mai compresa appieno da chi vive sul territorio per vari motivi, tra i quali l’eccesiva invadenza della propaganda pubblicitaria su menti che non si possono permettere il lusso di oziare perché strette nella morsa del ricatto salariale, e per il fatto che, prima di aprire, i danni che i centri commerciali provocheranno possono essere soltanto previsioni e non fatti tangibili, quindi potenzialmente inattaccabili in una visione della storia basata sulla menzognera promessa di un futuro benessere per tutti i suoi componenti. Era il 2007 e i danni si sono cominciati a vedere da subito, insieme alla riprova che il potere non impara mai dai suoi sbagli perché raramente ne paga le conseguenze. Ci prendemmo gusto e poco dopo ci occupammo della cacciata del papa tedesco dall’università di Roma come spunto per una critica all’ideologia religiosa, argomento questo che ha sempre suscitato il nostro disgusto. Alla luce dei fatti odierni, con l’allontanamento di Ratzinger perché non abbastanza telegenico, licenziato come una qualsiasi soubrette che ha messo su qualche chilo, siamo più che mai convinti che la chiesa cattolica sia solo uno dei tanti brand del libero mercato, che ha dalla sua rispetto agli altri una tradizione oscurantista invidiata da tutte le dirigenze capitaliste.

Intanto il decennio volgeva al termine tra un anniversario e l’altro, senza che nessuno se ne accorgesse: gli apologeti della “fine della storia” si convinsero troppo presto di essere riusciti a sterminare il dissenso, mentre l’ennesima crisi del capitalismo si sviluppava nel loro ventre molle. I ceppi della nuova resistenza erano continuati ad ardere sotto le macerie causate dalle guerre umanitarie, dapprima tiepidamente, poi con sempre più forza, delineandosi in maniera così inedita da sconfessare ogni storiografo privo di fantasia. Che si mettessero l’animo in pace: la storia sarebbe continuata, così come continua da migliaia di anni, e non saranno certo i maldestri e incompleti strumenti spettacolari ad estinguerla. La rivolta si ricrea, si rigenera come una macchia di umido sulle pareti di una galera dell’esistenza, la rivolta è per forza di cose improvvisazione perché i suoi nemici cercano sempre nuovi stratagemmi per contenerla. Ed è quando essa riesce a prendere in contropiede la reazione del potere, che allora ha delle possibilità di successo. A partire da un linguaggio che non venga riportato impunemente sui media tradizionali per favorirne l’accumulo di parole, perché privo della possibilità di essere riprodotto dai dispositivi spettacolari, ma che venga al contrario usato come uno strumento pratico nella realtà materiale. Un linguaggio che torni a suscitare la fiducia nelle azioni, che abbia di nuovo un significato, una nuova poetica dell’esistente. Ci è stato rinfacciato molte volte il fatto che la nostra scrittura sia complicata e indecifrabile: non pensiamo sia esatto. Premettendo che, tra otto e novecento, operai semi-analfabeti leggevano, tra gli altri, Marx e Bakunin, Malatesta e Gramsci, portando ad una dimensione pratica le loro teorie, pensiamo sia quantomeno inopportuno sembrare orgogliosi della propria ignoranza, facendo leva su una supposta appartenenza al “popolo basso”, come se il “popolo basso” non fosse in grado di essere intelligente, curioso e critico. Nessun linguaggio che si occupa sinceramente dell’emancipazione degli individui dalla loro schiavitù, potrà mai risultare tanto complicato da non essere capito da chi ha a cuore la propria libertà; oppure venir derubricato a utopia. La nostra personale ricerca di un linguaggio primevo ci costringe a negare i facili meccanismi spettacolari, perché si correrebbe il rischio di una sterilizzazione delle idee e alla loro conseguente svalutazione. La nostra lettura può richiedere forse uno sforzo, ma è uno sforzo costruttivo che cerchiamo in tutti i modi di rendere piacevole e divertente. Non si può scaricare un discorso bollandolo come incomprensibile, quando nello stesso tempo si delega la contestazione ai network sociali, riempiendoli di retorici slogan semplicisti. La condizione di ignoranza delle masse è sempre stato uno dei requisiti dell’affermazione del capitalismo, e la sua promozione rimane una delle controffensive preferite dalle sue gerarchie. Lo smantellamento della scuola pubblica dopo averla riconosciuta con riluttanza, l’analfabetizzazione di ritorno, il sempre più invasivo controllo cibernetico sulle menti dei cittadini-consumatori, sono tutti aspetti della controrivoluzione che cerca di nascondere la sua esistenza dietro la maschera della pacificazione sociale.