venerdì 20 novembre 2015

DENTRO LA STORIA

Quando studiamo la Storia, al di là della prospettiva dalla quale la osserviamo, siamo pervasi da sentimenti comuni e, in una certa misura, condivisi. Spesso è il sollievo determinato dal fatto di non aver partecipato a eventi sanguinosi e tragici; altre volte il rimpianto e la nostalgia di quello che ci siamo persi. Mano a mano che i fatti presi in considerazione diventano più recenti, sale in proporzione anche l’inquietudine, specialmente per situazioni parzialmente irrisolte e problematiche giunte fino al nostro presente. Quando poi il presente in cui viviamo è destinato a diventare Storia, e avvenimenti inediti hanno bisogno di un’interpretazione anch’essa inedita (verso la quale i nostri strumenti critici non riuscirebbero da soli a trovare una definizione soddisfacente) a quel punto siamo costretti ad abbassare la guardia e fare i conti con le nostre più profonde convinzioni. La Storia non mente, a differenza degli storici, e questa sua sincerità ha costretto da sempre le classi dominanti ad affrontare gli eventi inediti mostrando la loro vera faccia, meschina e violenta. Gli attentati di Parigi, il fronte più avanzato in occidente dell’odierna guerra asimmetrica, obbligano i vertici del capitalismo e i suoi tirapiedi ad adottare, in un modo o nell’altro, delle contromisure. E, considerando la posta in gioco, la reazione sarà tanto spietata quanto ottusa e dannosa. I governanti saranno impegnati a tenere a bada l’isteria dell’opinione pubblica, che con la propria inerzia continua a legittimarli, e si spenderanno in proclami bellicosi e conservatori fuori tempo massimo. La finanza e le grandi concentrazioni di capitali avalleranno queste posizioni mettendo a disposizione la loro linea di fuoco mediatica: giornali e televisioni continueranno a professare paura e insicurezza, e ci sarà sempre qualche vomitatoio digitale per sfogare i propri istinti irrazionali. D’altra parte, non c’è niente di meglio di una bella guerra mondiale per risollevare un’economia stagnante e nello stesso tempo arginare il problema della sovrappopolazione.
Una cosa è certa: l’ignoranza è un lusso che non ci possiamo più permettere. Forse era accettabile negli anni ottanta, quando da dentro la gabbia dorata a ovest del muro intravedevamo smaniosi un futuro di merci democraticamente opulente (no, neanche allora era accettabile, anzi non è mai accettabile). Non possiamo ignorare che i fiori all’occhiello del capitalismo italiano vendano armi all’Arabia Saudita, al Kuwait, che a loro volta finanziano i gruppi terroristici esecutori delle stragi di Parigi, così come di Beirut e Ankara. Bisogna ricordarsi che ogni volta che facciamo benzina è come se armassimo il fucile, di orgogliosa fabbricazione occidentale, che un giorno o l’altro potrebbe ucciderci. Non possiamo continuare ad ignorare l’ignobile doppio gioco della Turchia di Erdogan, che sta impunemente massacrando i popoli curdi forte del ricatto di due milioni di profughi siriani da sguinzagliare verso l’Europa. Non si può far finta di niente nei confronti delle rivendicazioni del proletariato cinese, che si sta presentando alla cassa per riscuotere il conto. E, in definitiva, non possiamo continuare ad ignorare oltre la sofferenza della maggior parte della popolazione mondiale, mentre cerchiamo di convincere noi stessi che questo sistema si riprenderà e tutto tornerà come prima. La prospettiva eurocentrica è una lente sfocata che inquadra soltanto ciò che non provoca turbamento, e lascia il lavoro sporco ai mercenari reclutati tra gli indigenti e indottrinati all’ideologia del profitto, di fatto una delle due contendenti se si vuol considerare quella attuale come una “guerra di religioni”.
Quando i rappresentanti dei governi invocano lo stato di emergenza, la chiusura delle frontiere, ulteriori fondi per gli apparati di polizia e difesa, hanno già ben chiaro in mente contro chi verranno usate queste misure: contro i migranti, gli sfrattati, i movimenti di contestazione e in generale contro qualsiasi forma di dissenso si manifesti sul “fronte interno”. Perché gli attacchi terroristici sono un fatto periodico e occasionale, ma le tensioni sociali sono quotidiane. E’ dall’attentato di New York che viene utilizzato questo giochino, e sembra che molti ancora non lo abbiano capito. E’ da quella data che le democrazie liberali si stanno spostando sempre più verso destra, puntando dritte verso lo stato di polizia, che sembra l’unica forma di governo in grado di gestire, reprimendole, le contraddizioni del capitalismo. La madre dei Salvini e dei Le Pen è sempre incinta, e i suoi figli si stanno intruppando per rinverdire quella comoda voglia di fascismo che è sempre stata latente in Europa, quella voglia di ordine che da sempre è aspirazione e completamento della borghesia.
Può essere difficile da accettare, ma al momento la nostra forza sta nella nostra disperazione: non esiste una motivazione altrettanto convincente. Deve essere però una disperazione lucida e creativa, che ha ben chiara la fisionomia dei veri nemici: il nemico è di classe, non di razza. Si dovrà essere in grado di riconoscerlo anche quando si cela dietro vantaggiose offerte monetarie, quando si fa scudo dei buoni propositi mentre fa solo gli interessi del suo gruppo di influenza, quando ci vorrà persuadere a morire per qualcosa di diverso dalla possibilità di godere della nostra vita. Il proletariato ha attraversato momenti molto peggiori di questo: ciò che gli manca adesso, fra le altre cose, è la consapevolezza nei propri mezzi e la certezza dei propri obiettivi. E’ inutile aspettare oltre un dio o un’ideale, soltanto noi saremo in grado di rendere reali i nostri desideri perché noi conosciamo il modo di farlo. Non sarà per niente facile, ma sicuramente ne varrà la pena.


venerdì 28 agosto 2015

FORZE NUOVE NEGLI INGRANAGGI DEL CAPITALISMO

La virile sfilata dei fascisti di Forza Nuova nel centro di Empoli, un mercoledì pomeriggio di agosto, ovviamente scortati (come sempre accade in questi casi) dai loro camerati celerini, non va in alcun modo sottovalutata. In primo luogo per la sua eco mediatica: è stata un'evidente operazione di marketing, una trovata pubblicitaria per far conoscere il loro brand in una città dove possiedono poco appeal, una città una volta considerata comunista, oggi invece annoiata al limite dell'apatia, quindi un succulento boccone per le mire propagandistiche dell'estrema destra. Diciamoci la verità, ai fascisti non importa niente dei senzatetto, italiani o stranieri che siano (infatti gli amici dei loro nonni li bruciavano senza tanti complimenti...). Il loro vero obiettivo a breve termine è ricostruire un consenso acritico intorno a vuote parole d'ordine dal fascino arcano, a ideali che facilmente possono fare presa su menti indebolite dalla paura del futuro e di un presente di crisi del quale non si riescono a capire le dinamiche. Ed ecco che entrano in scena loro, gli spacciatori di colpevoli a buon mercato: la plutocrazia, gli immigrati, gli omosessuali, e chi più ne ha, più confonda. Il fascismo in tutte le sue subdole forme è sempre stato funzionale al capitale, ne ha sempre difeso gli interessi quando questi erano in pericolo, e il capitale ne ha sempre tenuto conto, foraggiandolo e giustificando i suoi crimini come bravate di ragazzini un po' esuberanti.
Un commento a parte merita l'atteggiamento della stampa scandalistica locale: per esempio, "Il Tirreno", con una generosità quantomeno sospetta, ha pubblicato la foto dell'audace combriccola sulla prima pagina dell'edizione cittadina e DUE pagine DUE in cronaca, commentando l'accaduto a metà tra l'indignazione retorica e una certa compiacenza sarcastica per la beffa perpetrata nella città "rossa". Ci rendiamo conto che è stata una manna per le loro tirature in questa immobile estate empolese, ma non possiamo non constatare la distanza di interesse che passa tra una sporadica esibizione fascista e l'azione costante dei movimenti di lotta per la casa, che non raggiungono mai le prime pagine dei giornali, sebbene il loro operato sia più duraturo e incisivo.


COLLETTIVO ANTIKUNST

lunedì 17 agosto 2015

SULLE MENZOGNE CHE GOVERNANO IL PRESENTE
(E SULL’OPPORTUNITA’ DI DISFARSENE UNA VOLTA PER TUTTE)


I – Un debole pensiero

In un’afosa domenica di luglio, la signora S. sedeva fuori vicino alla porta di casa all’ombra di un olmo. Il paese era deserto dopo l’ora di pranzo, da dietro le persiane sbarrate non si sentiva nessun rumore, giusto qualche ronzio, forse un ventilatore acceso, ma poteva benissimo essere qualsiasi cosa. Una lieve brezza, come un asciugacapelli al minimo, smuoveva l’aria calda e portava da lontano le grida indistinte di bambini che giocavano in una piscina. In un momento non molto diverso dagli altri, alla signora S. apparve chiara l’assoluta inutilità della vita e delle azioni che fino ad allora aveva compiuto. Sedette inerme, lo sguardo sbarrato verso l’orrore, e in un battito di ciglia ogni elemento intorno a lei stava deperendo, le case divennero ruderi e gli alberi seccarono; crateri si aprirono nella terra ribollendo di un magma scuro e nel cielo saette radioattive sfolgoravano come tante stelle cadenti. Istintivamente raccolse una piccola falce lì vicino e iniziò ad incidersi la gola. Voleva staccare quella testa che aveva visto la fine del mondo, dal suo corpo che fino ad allora non ne aveva avuto nessun presagio. Ben presto la signora S. recise la giugulare che esplose in fiotti di sangue scarlatto, e cadde dalla sedia lunga sulla strada, ormai cadavere. Un gatto che aveva osservato tutta la scena, si avvicinò alla pozza rossa vicino al corpo della donna e azzardò un paio di leccate; quindi tornò indietro andando a sdraiarsi sotto una panchina, provato dal caldo.
Nello stesso istante, in un’ altra parte del mondo, un ragazzo perse la verginità assieme alla donna che amava dietro le dune di una spiaggia dell’estate. Si abbracciavano rotolando sulla sabbia che rimaneva attaccata al sudore dei loro corpi, inebriati da una felicità senza nome. Quell’orgasmo fu la rivelazione della meraviglia della vita, fiori colorati presero a spuntare tutto intorno, nella bocca si spanse un dolce sapore di vaniglia, e gli sembrò che si sprigionasse dal corpo di lei un intenso profumo di lavanda. Il cuore pompava come uno stantuffo, la mente leggera, un sorriso ebete si stampò sul suo viso; gli parve che i Primal Scream stessero suonando nelle sue orecchie. Tra tutti i pensieri che gli invasero la mente, ci fu anche quello che probabilmente non sarebbe stato mai più così bello, ma non fece presa sul suo stato d’animo e finì nell’oblio della memoria. Un vecchio che stava passeggiando col nipote li vide e li redarguì con male parole. I due fuggirono ridendo dal loro nido d’amore, tentando di coprirsi come meglio potevano.
Le vicende qui descritte sono i due estremi della gamma di sensazioni che è possibile provare nella vita. La rarità con la quale ambedue si manifestano dovrebbe far riflettere. Molte persone, in seguito a ragionamenti differenti, maturano l’idea del suicidio come unica via di fuga da un problema ai loro occhi irrisolvibile; ma sono pochi quelli che danno seguito a questa intuizione. Dall’altro lato, tutti scopano ma solo alcuni si lasciano vincere completamente dal piacere e dall’empatia con il proprio amante. Tutto ciò che ci distrae dai nostri desideri produce un’incertezza costante che subiamo tutti i giorni con rassegnato disincanto. In una società il cui unico scopo dichiarato è l’abbondanza delle merci, i desideri sono un articolo poco spendibile, in quanto la loro produzione non prevede lo sfruttamento di nessuno, risultando quindi scarsamente funzionale al fine accumulativo. Il percorso formativo di ogni individuo è minato alle fondamenta da questa mistificazione pronta ad esplodere in tutta la sua ambiguità. Individuare e squarciare il velo ideologico che, come una cappa di fuliggine, ricopre l’esistenza, appare oggi lo snodo principale per raggiungere la consapevolezza della nostra illusoria condizione di falso benessere.

II – “Non mi uccise la noia, ma la sua persistenza”

Una volta Hemingway disse che bisognerebbe scrivere solo di quello che si conosce, nella maniera più semplice possibile. Perciò sarebbe inutile e scorretto parlare di guerre e carestie, alta finanza  e bioetica. La nostra quotidianità procede su livelli banali e apparentemente senza conflittualità. In provincia, lontano dai grandi luoghi di concentrazione abitativa, si respira un’atmosfera sorniona, quasi oppiacea: gli anni si susseguono senza rimarchevoli cambiamenti, le relazioni appaiono cristallizzate in credenze ancestrali e superstizioni stregonesche (“A me mi garba il mio paese, perché non succede mai nulla”, ebbe a dichiarare un vecchio democristiano poco prima di morire). Ogni tanto un efferato fatto di cronaca scuote dal torpore i suoi abitanti in un impeto reazionario, dettato più dal primitivo bisogno di rimarcare il territorio che da una comunque rudimentale idea di giustizia sommaria, in ogni modo destinato ben presto ad essere sopito dalla routine. Questi episodi isolati sono il culmine negativo di una situazione insostenibile, le azioni di individui disperati che non comprendono altra risposta se non quella della violenza istintiva. I mezzi di informazione se ne servono per i loro biechi scopi di tiratura editoriale, consolidando allo stesso tempo queste suggestioni retrograde. Sebbene servano a mettere a nudo la frustrazione e il fastidio verso un’idea di mondo della quale non si riesce a comprendere le finalità, queste eccezioni rientrano nel generale e apparentemente immutabile clima di noia che ammanta ogni cosa e riempie come poliuretano espanso i pochi spazi lasciati vuoti dagli eccessi della produzione. La noia diventa una presenza tangibile che ti segue per tutto il giorno, in ogni occupazione quotidiana, dettando i tempi della sopravvivenza. La si può trovare in famiglia, a scuola, nei centri commerciali, nei locali notturni del divertimento forzato; il posto di lavoro rimane senza dubbio il suo luogo preferito. Ogni qual volta la meccanicità del nostro agire ci isola dalla nostra volontà, la noia trova la conferma della sua ingerenza nelle nostre vite, quindi di una formale ammissione della sua necessità. Ce ne serviamo per giustificare la velocità compulsiva della modernità, per evitare una discussione che preveda una presa di posizione definitiva, o quando i desideri rischiano di sconvolgere la tranquilla abitudine dello status quo, posticipando la loro realizzazione verso un futuro indefinito che ogni volta si allontana dal presente.

La noia non coincide, come verrebbe da credere, con l’inazione. Al contrario, spesso un eccesso di movimento è sintomo di un’insofferenza verso tutto ciò che ci viene intimato come imprescindibile. Svolgere del lavoro straordinario, partecipare ad eventi mondani, in generale le azioni che usiamo come riempitivo delle nostre giornate tutte uguali, servono a sostituire i reali bisogni dei quali siamo stati espropriati e che non riusciamo più a distinguere. Non li riconosciamo, ci sono diventati estranei, e quando per caso ne individuiamo uno, la parte razionale ce lo fa apparire come un colpo di testa, un’esuberanza della nostra libidine. “Bisogna fare quello che bisogna fare”, non esistono margini di trattativa. Con una condotta scellerata, c’è pericolo di intaccare l’organizzazione sociale dell’apparenza, e con essa la riproduzione della noia.