venerdì 28 agosto 2015

FORZE NUOVE NEGLI INGRANAGGI DEL CAPITALISMO

La virile sfilata dei fascisti di Forza Nuova nel centro di Empoli, un mercoledì pomeriggio di agosto, ovviamente scortati (come sempre accade in questi casi) dai loro camerati celerini, non va in alcun modo sottovalutata. In primo luogo per la sua eco mediatica: è stata un'evidente operazione di marketing, una trovata pubblicitaria per far conoscere il loro brand in una città dove possiedono poco appeal, una città una volta considerata comunista, oggi invece annoiata al limite dell'apatia, quindi un succulento boccone per le mire propagandistiche dell'estrema destra. Diciamoci la verità, ai fascisti non importa niente dei senzatetto, italiani o stranieri che siano (infatti gli amici dei loro nonni li bruciavano senza tanti complimenti...). Il loro vero obiettivo a breve termine è ricostruire un consenso acritico intorno a vuote parole d'ordine dal fascino arcano, a ideali che facilmente possono fare presa su menti indebolite dalla paura del futuro e di un presente di crisi del quale non si riescono a capire le dinamiche. Ed ecco che entrano in scena loro, gli spacciatori di colpevoli a buon mercato: la plutocrazia, gli immigrati, gli omosessuali, e chi più ne ha, più confonda. Il fascismo in tutte le sue subdole forme è sempre stato funzionale al capitale, ne ha sempre difeso gli interessi quando questi erano in pericolo, e il capitale ne ha sempre tenuto conto, foraggiandolo e giustificando i suoi crimini come bravate di ragazzini un po' esuberanti.
Un commento a parte merita l'atteggiamento della stampa scandalistica locale: per esempio, "Il Tirreno", con una generosità quantomeno sospetta, ha pubblicato la foto dell'audace combriccola sulla prima pagina dell'edizione cittadina e DUE pagine DUE in cronaca, commentando l'accaduto a metà tra l'indignazione retorica e una certa compiacenza sarcastica per la beffa perpetrata nella città "rossa". Ci rendiamo conto che è stata una manna per le loro tirature in questa immobile estate empolese, ma non possiamo non constatare la distanza di interesse che passa tra una sporadica esibizione fascista e l'azione costante dei movimenti di lotta per la casa, che non raggiungono mai le prime pagine dei giornali, sebbene il loro operato sia più duraturo e incisivo.


COLLETTIVO ANTIKUNST

lunedì 17 agosto 2015

SULLE MENZOGNE CHE GOVERNANO IL PRESENTE
(E SULL’OPPORTUNITA’ DI DISFARSENE UNA VOLTA PER TUTTE)


I – Un debole pensiero

In un’afosa domenica di luglio, la signora S. sedeva fuori vicino alla porta di casa all’ombra di un olmo. Il paese era deserto dopo l’ora di pranzo, da dietro le persiane sbarrate non si sentiva nessun rumore, giusto qualche ronzio, forse un ventilatore acceso, ma poteva benissimo essere qualsiasi cosa. Una lieve brezza, come un asciugacapelli al minimo, smuoveva l’aria calda e portava da lontano le grida indistinte di bambini che giocavano in una piscina. In un momento non molto diverso dagli altri, alla signora S. apparve chiara l’assoluta inutilità della vita e delle azioni che fino ad allora aveva compiuto. Sedette inerme, lo sguardo sbarrato verso l’orrore, e in un battito di ciglia ogni elemento intorno a lei stava deperendo, le case divennero ruderi e gli alberi seccarono; crateri si aprirono nella terra ribollendo di un magma scuro e nel cielo saette radioattive sfolgoravano come tante stelle cadenti. Istintivamente raccolse una piccola falce lì vicino e iniziò ad incidersi la gola. Voleva staccare quella testa che aveva visto la fine del mondo, dal suo corpo che fino ad allora non ne aveva avuto nessun presagio. Ben presto la signora S. recise la giugulare che esplose in fiotti di sangue scarlatto, e cadde dalla sedia lunga sulla strada, ormai cadavere. Un gatto che aveva osservato tutta la scena, si avvicinò alla pozza rossa vicino al corpo della donna e azzardò un paio di leccate; quindi tornò indietro andando a sdraiarsi sotto una panchina, provato dal caldo.
Nello stesso istante, in un’ altra parte del mondo, un ragazzo perse la verginità assieme alla donna che amava dietro le dune di una spiaggia dell’estate. Si abbracciavano rotolando sulla sabbia che rimaneva attaccata al sudore dei loro corpi, inebriati da una felicità senza nome. Quell’orgasmo fu la rivelazione della meraviglia della vita, fiori colorati presero a spuntare tutto intorno, nella bocca si spanse un dolce sapore di vaniglia, e gli sembrò che si sprigionasse dal corpo di lei un intenso profumo di lavanda. Il cuore pompava come uno stantuffo, la mente leggera, un sorriso ebete si stampò sul suo viso; gli parve che i Primal Scream stessero suonando nelle sue orecchie. Tra tutti i pensieri che gli invasero la mente, ci fu anche quello che probabilmente non sarebbe stato mai più così bello, ma non fece presa sul suo stato d’animo e finì nell’oblio della memoria. Un vecchio che stava passeggiando col nipote li vide e li redarguì con male parole. I due fuggirono ridendo dal loro nido d’amore, tentando di coprirsi come meglio potevano.
Le vicende qui descritte sono i due estremi della gamma di sensazioni che è possibile provare nella vita. La rarità con la quale ambedue si manifestano dovrebbe far riflettere. Molte persone, in seguito a ragionamenti differenti, maturano l’idea del suicidio come unica via di fuga da un problema ai loro occhi irrisolvibile; ma sono pochi quelli che danno seguito a questa intuizione. Dall’altro lato, tutti scopano ma solo alcuni si lasciano vincere completamente dal piacere e dall’empatia con il proprio amante. Tutto ciò che ci distrae dai nostri desideri produce un’incertezza costante che subiamo tutti i giorni con rassegnato disincanto. In una società il cui unico scopo dichiarato è l’abbondanza delle merci, i desideri sono un articolo poco spendibile, in quanto la loro produzione non prevede lo sfruttamento di nessuno, risultando quindi scarsamente funzionale al fine accumulativo. Il percorso formativo di ogni individuo è minato alle fondamenta da questa mistificazione pronta ad esplodere in tutta la sua ambiguità. Individuare e squarciare il velo ideologico che, come una cappa di fuliggine, ricopre l’esistenza, appare oggi lo snodo principale per raggiungere la consapevolezza della nostra illusoria condizione di falso benessere.

II – “Non mi uccise la noia, ma la sua persistenza”

Una volta Hemingway disse che bisognerebbe scrivere solo di quello che si conosce, nella maniera più semplice possibile. Perciò sarebbe inutile e scorretto parlare di guerre e carestie, alta finanza  e bioetica. La nostra quotidianità procede su livelli banali e apparentemente senza conflittualità. In provincia, lontano dai grandi luoghi di concentrazione abitativa, si respira un’atmosfera sorniona, quasi oppiacea: gli anni si susseguono senza rimarchevoli cambiamenti, le relazioni appaiono cristallizzate in credenze ancestrali e superstizioni stregonesche (“A me mi garba il mio paese, perché non succede mai nulla”, ebbe a dichiarare un vecchio democristiano poco prima di morire). Ogni tanto un efferato fatto di cronaca scuote dal torpore i suoi abitanti in un impeto reazionario, dettato più dal primitivo bisogno di rimarcare il territorio che da una comunque rudimentale idea di giustizia sommaria, in ogni modo destinato ben presto ad essere sopito dalla routine. Questi episodi isolati sono il culmine negativo di una situazione insostenibile, le azioni di individui disperati che non comprendono altra risposta se non quella della violenza istintiva. I mezzi di informazione se ne servono per i loro biechi scopi di tiratura editoriale, consolidando allo stesso tempo queste suggestioni retrograde. Sebbene servano a mettere a nudo la frustrazione e il fastidio verso un’idea di mondo della quale non si riesce a comprendere le finalità, queste eccezioni rientrano nel generale e apparentemente immutabile clima di noia che ammanta ogni cosa e riempie come poliuretano espanso i pochi spazi lasciati vuoti dagli eccessi della produzione. La noia diventa una presenza tangibile che ti segue per tutto il giorno, in ogni occupazione quotidiana, dettando i tempi della sopravvivenza. La si può trovare in famiglia, a scuola, nei centri commerciali, nei locali notturni del divertimento forzato; il posto di lavoro rimane senza dubbio il suo luogo preferito. Ogni qual volta la meccanicità del nostro agire ci isola dalla nostra volontà, la noia trova la conferma della sua ingerenza nelle nostre vite, quindi di una formale ammissione della sua necessità. Ce ne serviamo per giustificare la velocità compulsiva della modernità, per evitare una discussione che preveda una presa di posizione definitiva, o quando i desideri rischiano di sconvolgere la tranquilla abitudine dello status quo, posticipando la loro realizzazione verso un futuro indefinito che ogni volta si allontana dal presente.

La noia non coincide, come verrebbe da credere, con l’inazione. Al contrario, spesso un eccesso di movimento è sintomo di un’insofferenza verso tutto ciò che ci viene intimato come imprescindibile. Svolgere del lavoro straordinario, partecipare ad eventi mondani, in generale le azioni che usiamo come riempitivo delle nostre giornate tutte uguali, servono a sostituire i reali bisogni dei quali siamo stati espropriati e che non riusciamo più a distinguere. Non li riconosciamo, ci sono diventati estranei, e quando per caso ne individuiamo uno, la parte razionale ce lo fa apparire come un colpo di testa, un’esuberanza della nostra libidine. “Bisogna fare quello che bisogna fare”, non esistono margini di trattativa. Con una condotta scellerata, c’è pericolo di intaccare l’organizzazione sociale dell’apparenza, e con essa la riproduzione della noia.