IN SCIOPERO FINO
ALLA PENSIONE!
Ci risiamo, è
successo di nuovo. Mi dicevo basta, adesso è l’ora di cambiare registro, non
sei più un ragazzino, bisogna che ti trovi un lavoro serio e inizi a farti una
vita. Qualcosa del tipo tutti i giorni nel solito posto, otto ore come minimo,
e attaccamento, dedizione e gratitudine al datore di lavoro. “Datore di
lavoro”, che stronzata di locuzione! Riniziamo a chiamare le cose con il loro
nome: padrone! Forse si allevierà per un po’ la nausea che ci assale ogni
mattina al risveglio.
Io l’avevo trovato,
quel cazzo di lavoro, e tutti a dirmi ah che fortuna, di questi tempi, tientelo
stretto che è un attimo rimanere disoccupati, sì è vero, la paga è bassa però,
meglio di niente, e tutta una serie di formule consolatorie che non mi
consolavano affatto, anzi non facevano altro che alimentare il senso di
oppressione che mi costipava i pensieri. Tra l’altro era il lavoro che mi
sarebbe dovuto piacere, è perfetto per te, all’aria aperta in mezzo alla
natura, la mia consacrazione, la degna pietra tombale eretta sui cadaveri delle
mie speranze. Non ce l’ho fatta invece, non l’ho sopportato, e non perché penso
di essere un ribelle o perché voglio preservare l’illusione della giovinezza,
ho superato queste fasi, sono più consapevole. Ogni volta che mi affranco da un
lavoro mi sento sollevato, come quando, credo, si riesce a schivare un
proiettile che potrebbe ucciderti. Non esiste un lavoro che riesca a sostenere,
e men che meno possa trovare piacevole. Per me parla il mio percorso
lavorativo: la prima occupazione fu in una cereria, inzuppavamo le candele in
delle vasche di acetone, con il padrone, un vecchio ubriacone, che era lì con
noi, fumava tre pacchetti di MS al giorno e ogni tanto qualche tizzone finiva
dentro e ne usciva una fiammata: avevamo sedici anni e la cosa poteva anche
divertirci, dopotutto gli scroccavamo le sigarette e qualche cicchetto. Poi mi
ritrovai ad una pressa a fare vasi di ceramica per un bottegaio avido, corroso
dal sospetto e dalla diffidenza; con me c’era un uomo sui quarantacinque anni,
gentile e comprensivo, che qualche anno dopo morì ancora giovane di infarto.
Successivamente fu la volta di un’industria dolciaria: ero in magazzino e
preparavo i bancali per il cellista, una delle persone più tristi che abbia mai
conosciuto, doveva stoccare la merce in una cella a trentadue gradi sotto zero
e aveva il raffreddore tutto l’anno, anche d’agosto. Poi di nuovo ad una
pressa, in una fabbrica che produceva, tra l’altro, materiali per rivestimenti
di carri armati, astronavi e stronzate simili. Sette ore – turno di notte – a
pigiare un bottone e accatastare piastrelle di materiale indistruttibile,
destinate all’esercito israeliano e alle navicelle spaziali della NASA. Quindi
in un laboratorio di bigiotteria, dove si rifinivano ninnoli con una mola
spietata: ho visto un ragazzo più giovane di me perdere l’indice di una mano
con quella macchina infernale, il guanto dove mancava un dito e al suo posto
usciva una fontanella di sangue. Ci sono rimasto quattro giorni in quegli
scantinati, giusto il tempo di inventare una scusa – allergia alla polvere di
ferro. E in rapida successione: sottopagato al montaggio di lampadari e
plafoniere, magazziniere in un capannone immenso senza riscaldamento, occupato
nel bucolico e rustico mondo dell’agricoltura, vendemmie, raccolte, potature,
giardinaggio, alla mercé di gretti caporali e aristocratici fattori che si
sdegnavano di smotarsi le Hogan.
La fine di
ognuno di questi lavori è stata una risalita dagli inferi, una boccata di aria
fresca dopo mesi di paludosa apnea. Ricordo sempre con piacere le mattinate
durante le quali mi svegliavo senza la dittatura di una sveglia e avevo davanti
un giorno vuoto di obblighi e per questo pieni di seducenti aspettative. Quando
lavori non riesci mai a cogliere appieno l’intensità dei profumi, la
luminescenza del cielo, la vivacità dei colori e la profondità dei desideri.
Tutto rimane congelato in attesa del giorno di riposo che, come l’ora d’aria
del detenuto, si consuma nella bramosia dell’attesa di qualcosa di speciale, di
unico, di eccezionale, che non arriverà mai. E se arriverà, rimarrà solo il suo
racconto che si confonderà assieme agli altri banali discorsi della
pausa-pranzo del lunedì.
Detto ciò mi
trovo obbligato a considerare l’aspetto materiale della questione: senza soldi
non si può stare, per ora, non si campa di rendita, almeno per quanto ci
riguarda. Sembrerebbe un problema insormontabile se affrontato dalla
prospettiva capitalista, cioè quella con la quale ci hanno educato e che
subiamo ogni giorno. In una società in cui l’unico metro di valutazione rimane
quello monetario, in cui il valore delle cose e delle persone è solo valore di
scambio, in cui la convenienza determina i rapporti sociali, è inconcepibile
stare senza generare profitto, senza produrre. Se per un attimo provassimo a
osservare la realtà da un ottica diversa, obliqua a quella dominante, una
visione storica che metta al centro dell’obiettivo i desideri dei viventi,
l’armonizzazione dell’azione umana con quella del resto dell’ambiente naturale
e animale, un’esistenza non più votata all’accumulazione, ma all’affinamento,
alla scoperta e allo sperpero di piaceri e sensazioni – a quel punto cadrebbe
il reticolato di menzogne, ansie e paure che ci hanno costruito intorno alla
mente. E nessuno troverebbe più così necessario lavorare. Sarà un percorso
lungo e difficile, i nostri nemici, militarmente e mediaticamente ben
equipaggiati, faranno di tutto per farci desistere, ne va della loro
sopravvivenza. Dovremo essere in tanti e convinti di fare la cosa giusta, perché
alla fine lo è. Si tratta di salvare l’umanità dalla propria estinzione, e non
è un eufemismo. E non venitemi a parlare di utopie o illusioni: trovo molto più
stupido consegnare una vita, che per inciso è l’unica che abbiamo, allo
sfruttamento soltanto perché non siamo più capaci di immaginarci una condizione
migliore.