sabato 5 novembre 2016

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE!

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE!


Ci risiamo, è successo di nuovo. Mi dicevo basta, adesso è l’ora di cambiare registro, non sei più un ragazzino, bisogna che ti trovi un lavoro serio e inizi a farti una vita. Qualcosa del tipo tutti i giorni nel solito posto, otto ore come minimo, e attaccamento, dedizione e gratitudine al datore di lavoro. “Datore di lavoro”, che stronzata di locuzione! Riniziamo a chiamare le cose con il loro nome: padrone! Forse si allevierà per un po’ la nausea che ci assale ogni mattina al risveglio.
Io l’avevo trovato, quel cazzo di lavoro, e tutti a dirmi ah che fortuna, di questi tempi, tientelo stretto che è un attimo rimanere disoccupati, sì è vero, la paga è bassa però, meglio di niente, e tutta una serie di formule consolatorie che non mi consolavano affatto, anzi non facevano altro che alimentare il senso di oppressione che mi costipava i pensieri. Tra l’altro era il lavoro che mi sarebbe dovuto piacere, è perfetto per te, all’aria aperta in mezzo alla natura, la mia consacrazione, la degna pietra tombale eretta sui cadaveri delle mie speranze. Non ce l’ho fatta invece, non l’ho sopportato, e non perché penso di essere un ribelle o perché voglio preservare l’illusione della giovinezza, ho superato queste fasi, sono più consapevole. Ogni volta che mi affranco da un lavoro mi sento sollevato, come quando, credo, si riesce a schivare un proiettile che potrebbe ucciderti. Non esiste un lavoro che riesca a sostenere, e men che meno possa trovare piacevole. Per me parla il mio percorso lavorativo: la prima occupazione fu in una cereria, inzuppavamo le candele in delle vasche di acetone, con il padrone, un vecchio ubriacone, che era lì con noi, fumava tre pacchetti di MS al giorno e ogni tanto qualche tizzone finiva dentro e ne usciva una fiammata: avevamo sedici anni e la cosa poteva anche divertirci, dopotutto gli scroccavamo le sigarette e qualche cicchetto. Poi mi ritrovai ad una pressa a fare vasi di ceramica per un bottegaio avido, corroso dal sospetto e dalla diffidenza; con me c’era un uomo sui quarantacinque anni, gentile e comprensivo, che qualche anno dopo morì ancora giovane di infarto. Successivamente fu la volta di un’industria dolciaria: ero in magazzino e preparavo i bancali per il cellista, una delle persone più tristi che abbia mai conosciuto, doveva stoccare la merce in una cella a trentadue gradi sotto zero e aveva il raffreddore tutto l’anno, anche d’agosto. Poi di nuovo ad una pressa, in una fabbrica che produceva, tra l’altro, materiali per rivestimenti di carri armati, astronavi e stronzate simili. Sette ore – turno di notte – a pigiare un bottone e accatastare piastrelle di materiale indistruttibile, destinate all’esercito israeliano e alle navicelle spaziali della NASA. Quindi in un laboratorio di bigiotteria, dove si rifinivano ninnoli con una mola spietata: ho visto un ragazzo più giovane di me perdere l’indice di una mano con quella macchina infernale, il guanto dove mancava un dito e al suo posto usciva una fontanella di sangue. Ci sono rimasto quattro giorni in quegli scantinati, giusto il tempo di inventare una scusa – allergia alla polvere di ferro. E in rapida successione: sottopagato al montaggio di lampadari e plafoniere, magazziniere in un capannone immenso senza riscaldamento, occupato nel bucolico e rustico mondo dell’agricoltura, vendemmie, raccolte, potature, giardinaggio, alla mercé di gretti caporali e aristocratici fattori che si sdegnavano di smotarsi le Hogan.
La fine di ognuno di questi lavori è stata una risalita dagli inferi, una boccata di aria fresca dopo mesi di paludosa apnea. Ricordo sempre con piacere le mattinate durante le quali mi svegliavo senza la dittatura di una sveglia e avevo davanti un giorno vuoto di obblighi e per questo pieni di seducenti aspettative. Quando lavori non riesci mai a cogliere appieno l’intensità dei profumi, la luminescenza del cielo, la vivacità dei colori e la profondità dei desideri. Tutto rimane congelato in attesa del giorno di riposo che, come l’ora d’aria del detenuto, si consuma nella bramosia dell’attesa di qualcosa di speciale, di unico, di eccezionale, che non arriverà mai. E se arriverà, rimarrà solo il suo racconto che si confonderà assieme agli altri banali discorsi della pausa-pranzo del lunedì.

Detto ciò mi trovo obbligato a considerare l’aspetto materiale della questione: senza soldi non si può stare, per ora, non si campa di rendita, almeno per quanto ci riguarda. Sembrerebbe un problema insormontabile se affrontato dalla prospettiva capitalista, cioè quella con la quale ci hanno educato e che subiamo ogni giorno. In una società in cui l’unico metro di valutazione rimane quello monetario, in cui il valore delle cose e delle persone è solo valore di scambio, in cui la convenienza determina i rapporti sociali, è inconcepibile stare senza generare profitto, senza produrre. Se per un attimo provassimo a osservare la realtà da un ottica diversa, obliqua a quella dominante, una visione storica che metta al centro dell’obiettivo i desideri dei viventi, l’armonizzazione dell’azione umana con quella del resto dell’ambiente naturale e animale, un’esistenza non più votata all’accumulazione, ma all’affinamento, alla scoperta e allo sperpero di piaceri e sensazioni – a quel punto cadrebbe il reticolato di menzogne, ansie e paure che ci hanno costruito intorno alla mente. E nessuno troverebbe più così necessario lavorare. Sarà un percorso lungo e difficile, i nostri nemici, militarmente e mediaticamente ben equipaggiati, faranno di tutto per farci desistere, ne va della loro sopravvivenza. Dovremo essere in tanti e convinti di fare la cosa giusta, perché alla fine lo è. Si tratta di salvare l’umanità dalla propria estinzione, e non è un eufemismo. E non venitemi a parlare di utopie o illusioni: trovo molto più stupido consegnare una vita, che per inciso è l’unica che abbiamo, allo sfruttamento soltanto perché non siamo più capaci di immaginarci una condizione migliore.